Questo l'ho scritto di getto su una panchina sulla strada parco domenica 12 aprile, a sei giorni dal terremoto.
A Pescara mi sembra di camminare sulla superficialità fatta cemento e asfalto. Non dappertutto ovviamente, solo in alcune parti della città, quale per esempio esemplare il centro della città. Questo consumismo di cui avevo già parlato quasi mi nausea, l’apparire “show for show sake” riempie i miei occhi che hanno visto qualcosa che li ha riempiti e li terrà satolli per il tempo necessario. Esemplare anche il fatto che per una settimana non ho ascoltato musica di mia spontanea volontà; solo ieri ho ripreso in mano l’i-pod e mtv, che quasi come in una pregie ascoltata mia ha riservato un bel quartetto di favorites. Tiziano mi dice che la mia vita non passerà, e Carmen dice di non essere per niente stanca. In quanto a musica portami in cielo nel piazzale della scuola allievi ufficiali della guardia di finanza mi è bastato: ma poiché non c’è limite alla voglia umana avrei gradito la presenza di Andrea a supportare questo miserere pieno di speranza.
Ho pensato: e il futuro? Non mi preoccupa l’organizzazione di esami e tesi, né il fatto di dover cambiare probabilmente sede universitaria l’anno prossimo; è che per un attimo non ho visto scopi reali, e anche l’intenso pensare sulle possibilità della mia relazione con Melissa è svanito. Ho sentito poco l’ambientale alla messa del mercoledì santo di Eusebio al catechumenion, ,ma dopo ieri una parola è tornata. Tutto passa, gli affetti , le cose , le persone , i progetti , la vita; e ora vicino a me c’è un ragazzo ben vestito, carino, su una bici, che si è fermato a parlare per quello che può con un signore: lui non può parlare quasi per niente, sembrano tutti suoni lamentosi, ma capisce benissimo, e si aiuta con i gesti; io la parola ce l’ho ancora, ma non posso affidarmi ad essa come ad un’ancora infinita, poiché anche la batteria di questo f3jp si esaurirà. Solo l’amore resta.
Andrea è sopravvissuto alla casa dello studente, e meno male, perché mi ha spezzato la parola del profeta: anche se i monti vacillassero – e hanno vacillato alla grande – la mia promessa è eterna, e tu non finirai, perché l’amore supera tutte le barriere dell’esistenza. E ieri dopo sei giorni di pensiero costante rivolto al terremoto e un mini attacco di panico a letto, non ho pensato per un paio d’ore a tutto questo. Sia ben inteso, io non voglio dimenticare niente: non ho visto morti, non sono uscito in modo fortunoso e miracoloso dalle macerie, i miei parenti e amici sono incolumi, tranne un amico conoscente di ingegneria, la casa mia è distrutta, ma non è di mia proprietà; insomma volendo sono il meno colpito di tutta la faccenda. Eppure non c’è più casa leonardis, il cuore della nostra vita universitaria, di mille uscite , di mille avventure andate male con ragazze e donne più o meno disponibili, di ubriacature, di ore passate a parlare degli amici che ci sono o che ti tradiscono, di Cristo, allenamento e cene pantagrueliche a base di tonno, pane e prosciutto che si taglia, e poi tantissima musica, e tanto studio di notte per recuperare i giorni passati a non fare niente. Come sono attaccato alle affettività!
Quello che più ti resta dentro è la sofferenza che leggi negli occhi delle persone, e la consapevolezza che li capisci, almeno in parte, più di tutto il resto d’Italia, perché là tu c’eri, anche tu sei stato svegliato dal rumore basso e assordante del tremore, e poi il letto che si muove e camminare a piedi nudi sui calcinacci, la porte che non si vuole aprire perché tutto è deformato, tutti i tuoi oggetti per terra che non noti neanche perché la tua preoccupazione è una giacca, gli occhiali e il portatile, e solo dopo è necessari infilarsi i pantaloni, cosa importa uscire in mutande? Non aiuta molto la consapevolezza di aver salvato un gruppo di persone chiuse nel proprio condominio, intrappolate e in panico reale, né l’aver aiutato per otto ore impiedi senza calze nelle scarpe la polizia a deviare il traffico e far entrare agevolmente le colonne di soccorsi. La sera stessa c’è stata una voglia forte, mia e di Manuel, di tornare a l’aquila: come stare a casa, sicuri, nel letto, sapendo che lì c’è ancora moltissimo da fare, da scavare, da recuperare, da consolare, da organizzare, da salutare e vedere e dire “sono contento che tu sia vivo”.
Eppure Cristo è risorto, e ci viene a donare la vita eterna già da questa vita terrena, insieme a persecuzione e croce. La mia croce è la mia storia, il non avere un obiettivo. Credo a questo punto che questa croce dovrò tenermela ben stretta, perché è evidente: è la mia scala di giacobbe. E il tatuaggio sulla mano, il mio nome inciso sulle palme delle sue mani, che farà in modo che non si scordi mai di me, e io di lui, è scritto e inciso con il ferro di un chiodo.
1 commento:
Caro Lorenzo,
Condivido con te il tuo dolore in queste circostance e in tutta questa storia.
Noi eravamo stati ospitati all'Aquila per il pellegrinaggio di Loreto. Sapendo che siamo andati per le strade, e parlato con persone, che magari ora non ci sono piu, fa pensare molto a quel che hai detto...che tutto passa veramente!
Spero che Dio aiuti tutti voi, specialmente i parenti delle vittime, per 'non dubitare mai del suo amore', anche se avvenimenti come questi ci scuotono nel nostro interiore.
Noi da Malta, preghiamo per voi.
Pace.
John Muscat
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